Da troppo tempo la gente aveva perso l’abitudine di stare a casa, proiettata sempre di più nella città. Il modo migliore per stare insieme agli altri è togliersi dalla solitudine domestica, ormai sempre più alimentata dagli strumenti informatici e telematici.
Da più di venti anni, soprattutto le nuove generazioni, hanno perso l’interesse verso la pratica dell’arredamento: l’architettura degli interni è ormai una disciplina del passato, coltivata nelle Facoltà di Architettura da maestri come Gio Ponti, Vittoriano Viganò, Carlo De Carli; così, i poveri produttori di mobili, non sono stati più sollecitati a produrre oggetti per un utilizzo domestico.
Con una violenza per molti inaspettata è arrivato il virus dalla Cina, e tutti si sono dovuti ritirare in casa: tutti, anche quei giovani che erano impegnati per molte ore nella città; tutti, anche gli studenti che riempivano le strade la mattina presto per andare a scuola; tutti, anche le massaie che con una certa eccitazione riempivano i supermercati traboccanti di offerte; tutti insomma, tutti.
Tutti nelle case, per evitare il contagio!
Le case ritrovano così una frequentazione di cui si era persa la memoria, così ognuno sta cercando di costruire dei rapporti quotidiani con gli spazi e con gli oggetti.
Stare in casa cercando di fare qualcosa: leggere, cucinare, comunicare con internet, dormire… azioni sempre più difficili se corredate dai bollettini televisivi di malati e morti, in Italia e nel mondo, che ci immobilizzano nel terrore quotidiano.
Bisogna stare in casa, è l’unico mezzo per combattere il virus: ciò vuol dire che non si può uscire.
Dopo un po’ l’idea di uscire diventa ossessiva. Ed ecco che molti prigionieri in casa cercano una via di uscita: la finestra, ma soprattutto il balcone.
Il balcone, quel luogo proiettato nello spazio urbano, all’esterno, che in questi ultimi decenni si era riempito di mobiletti porta scope, bidoncini della spazzatura, condizionatori d’aria…
I balconi hanno trovato un proprio ruolo. Un ruolo fondamentale per la sopravvivenza, poter stare all’esterno, insomma uscire dalla casa, sentirsi ancora per poco (molto poco) abitanti dello spazio urbano.
Il balcone, quello strumento abitativo che riusciva a rappresentare, nelle mie opere degli anni Settanta, il modo di rompere la barriera tra spazio interno e spazio esterno, oggi è diventato uno degli spazi domestici più utili per superare la forzata claustrofobia domestica.